Una Bergen mondiale


di SIMONE BASSO
Il Giornale del Popolo, 23 settembre 2017

Bergen verso il clou della festa: il sabato le donne, l'indomani i professionisti.
In Norvegia c'è più pubblico sulla strada in cinquanta metri, prendendo un tratto a caso del percorso, che in tutta la rassegna iridata a Doha 2016.
L'ultima (e unica, prima di quest'anno) volta che i Mondiali furono ospitati dal Regno fu il 1993: un altro secolo, un altro universo.
Furono Campionati storici, con un incrocio (curioso) di storie e di uomini.

C'erano ancora i dilettanti, la categoria degli under 23 sarebbe stata creata nel 1996, a Lugano, e la gloriosa Cento Chilometri - una sorta di Formula Uno della bicicletta - era prossima alla resa.
Tra i Grandi, Epolandia era diventata realtà, crudele ma sottaciuta e necessaria (...).
Eravamo a Oslo e si arrivava dalla seconda doppietta Giro-Tour consecutiva di un irresistibile Miguel Indurain e dall'annata della carriera di Maurizio Fondriest, vincente senza soluzione di continuità da febbraio all'estate post-Tour.
Penultima iride agostana, la prova regina si disputò il 29 agosto, e raccoglieva dunque il guanto di sfida tra i reduci della Grande Boucle e gli altri, i classicomani che si erano preparati in giro per l'Europa.
Anche quella volta il campione in carica andava per il tris.
Si fa per dire, perché Gianni Bugno - che aveva indossato l'arcobaleno a Stoccarda (1991), replicando a Benidorm l'anno successivo - era nel bel mezzo di un annus horribilis, in una crisi personale che si rifletteva nei (non) risultati del suo '93.
Eppure l'Italia era il faro della corsa, un gruppo (o un insieme di clan...) fortissimo: Fondriest e Bugno su tutti, poi Claudio Chiappucci, Moreno Argentin eccetera.
Tutti contro gli azzurri: Olaf Ludwig, Johan Museeuw e Rolf Soerensen gli assaltatori più attesi.
Il circuito cittadino, su e giù per le colline della capitale norvegese, già infido di per sé, alla mattina, alle prime gocce di pioggia si trasformò in una trappola.
Caddero in tanti e la selezione fu accentuata pure dalla temperatura, poco sopra i dieci gradi centigradi.
Malgrado il valore tecnico dell'équipe (Pascal Richard, Rolf Jaermann, Felice Puttini, Beat Zberg...), la Svizzera non svettò nel momentum.
Il diluvio aveva spento i sogni di molti e ispirato quelli di un americano giovane - ancora ventunenne - e promettentissimo: Lance Armstrong.

Lo statunitense, alla vigilia, era uno degli outsider più considerati nei pronostici.
A luglio, al Tour de France, il texano aveva impressionato i suiveur per la forza e la mentalità esibite: a Verdun, imponendosi in una volata ristretta, era diventato il più giovane vincitore di tappa del dopoguerra.
Se la matricola americana nel nubifragio ci sguazzava, altri affondarono.
Bugno ripeté per qualche tornata un bordone bipolare: davanti salendo il Ryenberg e l'Ekeberg, dietro, tirando i freni sino alla coda del plotone, a ogni discesa.
Stremato, e terrorizzato dai capitomboli in serie dei colleghi, il monzese prese la strada dei box a più di quaranta chilometri dall'epilogo.
Sull'Ekeberg, a un giro dalla fine, l'attimo fuggente della competizione: Indurain, Chiappucci, Frans Masseen e Gerard Ruè allungarono; dietrò, a mo' di elastico (al limite), Armstrong.
I quattro esitarono e il campione stelle e strisce rientrò su di loro.
Al suono della campanella, dal gruppettino (senza Fondriest) uscirono Ludwig, Maassen e Dag Otto Lauritzen.
Il beniamino di casa, scorgendo la sagoma minacciosa di Indurain, andò via.
In contropiede, mentre i migliori si marcavano, anche Armstrong uscì allo scoperto: prima si ricongiunse con Maassen e poi, dopo lo scollinamento di Ryenberg, arrivò su Lauritzen.
Alla fine della discesa, mentre Ruè si stava riportando sui tre, su un falsopiano, l'americano fece l'allungo decisivo.
Ancora sull'Ekeberg, dove Armstrong precedette Ruè e Maassen di appena sette secondi, una progressione di Indurain diede l'illusione dell'ennesimo cambio di scenario.
Ma nella picchiata su Holtet, verso Oslo, Lance sigillò l'impresa: a Gamlebyen, correva già con la vittoria addosso.
Il ragazzo della Motorola cominciò ad esultare a seicento metri dal traguardo: divenne il secondo americano a indossare la maglia iridata, dopo gli exploit di Greg LeMond nel 1983 (ad Altenrhein) e nell'89.
Per il podio, dopo un tentativo donchisciottesco del solito Chiappucci, di rabbia Miguelon regolò allo sprint Ludwig, Museeuw e Fondriest.
Il navarro, straordinario, non era nuovo a questi numeri.
Al Tour de France, un mese e mezzo prima, Indurain aveva battuto a un traguardo volante Mario Cipollini e Djamolidine Abdoujaparov...

L'Armstrong imberbe, degli esordi, era un torello che pesava quasi ottanta chili.
Le spalle da triatleta, il furore agonistico e una capacità di lavorare in lattacido - scattando - che ne faceva un ras delle classiche.
La sera del trionfo, al ricevimento dal Re di Norvegia, si presentò con la madre che pareva sua sorella maggiore.
Mamma Linda l'aveva avuto a sedici anni.
Quel successo fu - per un bel po' di tempo - l'ultimo al Mondiale di un atleta senza eritropoietina nel corpo.
Un destino bislacco: dopo il tumore e la guarigione, Armstrong sarebbe diventato la massima espressione e distorsione di quel sistema.
Decadente, ma che comandava e amministrava i ciclisti: vittime e carnefici, nello stesso istante, della loro passione diventata lavoro.
L'attore hollywoodiano degli anni US Postal sembrava un altro: una versione elaborata, più forte e perfida, dimagrita e iraconda, di quel ragazzo esuberante che beffò - in un giorno da tregenda - Indurain e Museeuw.

Il dì prima, il sabato, sui dilettanti splendette il sole.
La selezione, come sempre nella gara dei "puri", avvenne con le peculiarità di quel movimento: i 43,6 km/h di media oraria finale - su 184 chilometri totali! - testimoniano l'andatura folle e l'assenza di tatticismo. 
Nell'epilogo rimasero in cinque: la volata, atipica, vide il predominio di un giovane tedesco su Kaspars Ozers e Lubor Tesar.
Jan Ullrich, a diciannove anni, quel pomeriggio diventò il più giovane a vincere un mondiale dilettanti da Eddy Merckx nel 1964.
Il paragone ingombrante, col Cannibale, non sembri un'eresia: pochissimi, nell'evo moderno, hanno impressionato - per potenza e stile - quanto Ulle.
Che fu, per un paio di stagioni, nell'epoca più cyberpunk, il corridore vessillo di quell'evo luciferino.
L'Ullrich di Arcalis al Tour '97, il superuomo che produsse 497 watt per otto chilometri di ascesa pirenaica, pedalando con un'eleganza imperiale, rimase l'apice assoluto - anche estetico - di quella concezione estrema dello sport.
La storia, beffarda, lo incrocerà - eterno sfidante (perdente) - con l'Armstrong dittatoriale (e improbabile) del settennato, oggi cancellato dagli albi d'oro.
Lance, ossessivo, egoarca, campione nella testa e nel fegato, rappresentò la nemesi dell'altro, Jan, fenomeno nelle gambe e nei polmoni, ma vessato dalle origini.
Tedesco orientale, anch'egli cresciuto senza babbo come Armstrong, con la zavorra del peso in più invernale e un disagio - evidente - per il mestiere di divo.
Nessuno però, nemmeno il texano, metteva in dubbio il talento superiore del rosso di Rostock, che quando si accendeva (avete presente Sydney 2000?) pareva un eroe wagneriano in missione per conto degli dei.
Sarebbe stato bello, sarebbe stato meglio, vedere Armstrong e Ullrich in un tempo diverso.
Magari questo: per ammirarli nel loro furore iconoclasta, invece che subirli in quel reality di un'epoca sconcia.
Più umani, meno verosimili.
Insegnando loro, ai bambini dotati da Zeus in persona, ad avere pietà: degli avversari e di se stessi.
E la bellezza dell'oblio. 
SIMONE BASSO
Il Giornale del Popolo, 23 settembre 2017

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